La sindrome di Mastro Geppetto

Tutte le culture patriarcali (dunque quasi tutte le culture del mondo) utilizzano di default il dispositivo del capro espiatorio. Lo utilizzano per risolvere (o credendo di risolvere, o facendo credere di risolvere) problemi reali e problemi che sono sinceramente convinte di avere ma che in realtà non hanno. Lo utilizzano anche quando il problema non esiste ma conviene far credere che esista. Chi sceglie se usarlo e come usarlo? Chiunque, a qualunque livello, è nelle condizioni di farlo, ha cioè il potere di imporre questo escamotage in una piccola o grande comunità di persone. Non è strettamente necessario detenere un potere formale per farlo: è sufficiente detenere anche solo (si fa per dire) un potere reale e decidere di usarlo, anche solo a proprio vantaggio (per esempio per destabilizzare il potere formale e/o per ottenerlo).

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#9 – TIENITI FORTE – L’AMARE E IL FUGGIRE

Ecco il nono e penultimo episodio del podcast dedicato al libro “Tieniti forte. Lettere al figlio che parte” (Bordeaux Edizioni). Nella prima parte leggo il brano “Separarsi per esistere”. Nella seconda parte faccio alcune considerazioni sulla resistenza alla separazione e al cambiamento, sul patriarcato e sulla importanza della fuga.

#8 – TIENITI FORTE – L’AMORE E IL SOTTOSOPRA

Qui sotto trovate l’ottavo episodio del podcast dedicato al libro “Tieniti forte. Lettere al figlio che parte” (Bordeaux Edizioni). Nella prima parte leggo il brano “La ragazza del pullman”. Nella seconda parte faccio alcune considerazioni su amore, cambiamento, patriarcato e mondo sottosopra.

Per chi preferisce leggere: sotto la barra del link trovate la trascrizione delle considerazioni (seconda parte del podcast); per leggere, invece, il brano di partenza (prima parte del podcast) basta cliccare qui sul titolo del brano: LA RAGAZZA DEL PULLMAN

La mia formazione sentimentale risale ai tempi in cui il privato era politico.

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#7 – TIENITI FORTE – LA VERGOGNA E IL SILENZIO

Ecco il settimo episodio del podcast dedicato al libro “Tieniti forte. Lettere al figlio che parte” (Bordeaux Edizioni). Nella prima parte leggo il brano “Come fossi stato io”. Nella seconda parte faccio alcune brevissime considerazioni sulle colpe dei figli nel vissuto dei loro genitori.

#6 – TIENITI FORTE – LA CURIOSITÀ E LA FIDUCIA

Ecco il sesto episodio del podcast dedicato al libro Tieniti forte. Lettere al figlio che parte (Bordeaux Edizioni). Nella prima parte leggo un brano che sta a cuore a molti e che si chiama Ci vuole coraggio. Nella seconda parte faccio alcune brevi considerazioni sull’impatto che curiosità e fiducia hanno nelle relazioni significative.

#5 – TIENITI FORTE – IL SOSTEGNO E IL CONTROLLO

Ecco il quinto episodio del podcast dedicato al libro Tieniti forte. Lettere al figlio che parte (Bordeaux Edizioni). Apportando non poche modifiche, leggo un brano che si chiama Airport Rieducational Channel e, a seguire, faccio alcune considerazioni sulla cura, sul sostegno, sul controllo e sugli stili genitoriali (che incarnano uno specifico principio di autorità). Nella parte della conversazione utilizzo alcuni stralci del brano Rende possibile il pianto.

#4 – TIENITI FORTE – LA GENTILEZZA E LA SPERANZA

Nel quarto episodio del podcast dedicato a Tieniti forte. Lettere al figlio che parte (Bordeaux Edizioni) leggo, con qualche piccolissima modifica, il brano Sui treni di mio figlio e faccio, dopo la lettura, qualche considerazione su argomenti che è possibile ritrovare anche in altri brani del libro.

#3 – TIENITI FORTE – IL TEMPO E LA LUCE

Finalmente (per me) il terzo episodio del podcast dedicato a Tieniti forte. In questo episodio: nella prima parte leggo, con qualche necessaria variazione, il brano Il figlio muto; nella seconda parte faccio alcune brevi considerazioni, ispirate dal pensiero di Maria Zambrano, sul significato dei passaggi fondamentali del libro.

#2 – TIENITI FORTE – IL PENSIERO E IL PERDONO

Adesso posso confessare che non ero sicurissimo che saremmo andati oltre il primo e, invece, anche grazie all’incoraggiamento di quasi cinquanta vostri feedback puntuali e mirati e alle quasi duecento riproduzioni, ecco che arriva il secondo episodio del podcast di Curacultura.

Nella prima parte leggo una versione rivista del brano Non passa giorno pubblicato in Tieniti forte. Lettere al figlio che parte (Bordeaux Edizioni) ma che trovate anche in questo blog. Nella seconda parte faccio una breve conversazione intorno ai temi sui quali è costruito il brano.

La voce femminile è di Marianna de Pinto (Malalingua) che non finirò mai di ringraziare per aver prestato la sua voce alle parole di Etty Hillesum.

Buon ascolto.

#1 – TIENITI FORTE – IL FINE E LA FINE

Care amiche. Cari amici.

Abbiamo incubato a lungo l’idea di un podcast e, finalmente, possiamo dare inizio alla prima fase di sperimentazione di questo progetto, consapevoli di non essere professionisti di questo settore ma anche curiosi di aggiungere la mia voce alle parole che da tanti anni abitano questo blog.

Cominciamo con una serie legata a Tieniti forte. Lettere al figlio che parte, il mio ultimo libro (Bordeaux Edizioni): in ogni episodio leggo (apportando piccole modifiche che facilitano l’ascolto) un brano del libro e, sui temi che sono oggetto di questo stesso brano, tengo – immediatamente a seguire – una breve conversazione, affinché ciascuno dei brani selezionati possa farsi occasione, non solo di identificazione personale (come è successo a tante e tanti tra voi), ma anche di riflessione più generale.

Cominciamo con questa serie, quindi, ma nel frattempo lavoriamo anche a cose nuove e diverse: i podcast avranno un’unica numerazione progressiva ma, dal titolo di ciascun episodio, sarà possibile intuire a quale serie appartengono.

Non ci resta che iniziare, allora, ascoltando l’episodio relativo alla Introduzione al libro.

Anzi, no, ho dimenticato di chiedervi una cosa: avete voglia di mandarmi in privato un feedback su questo primo episodio?

Grazie! Adesso possiamo cominciare davvero: buon ascolto!

Ci vediamo in libreria il 20 giugno

Carissime lettrici e Carissimi lettori di questo blog, a quattro anni di distanza da Eppure il vento soffia ancora torno in libreria con Tieniti forte. Lettere al figlio che parte (sempre per Bordeaux Edizioni) continuando a portare avanti il progetto editoriale, che voi conoscete bene, di fare pezzi di antropologia della vita quotidiana e familiare (o di fare a pezzi l’antropologia, dipende dai punti di vista), nel segno della cura come esperienza primaria e radicale della nostra vita, utilizzando lo strumento dell’autobiografia o, meglio, della mia autobiografia.

Tieniti forte. Lettere al figlio che parte è un “giro della famiglia in quaranta brani” (intuizioni in presa diretta, pubbliche ammissioni, stralci di diario, trascrizioni di sogni, lettere che partono da un altrove assoluto, la mia vita privata) che rimandano al sentire e al sapere di ciascuno e di ciascuna che legge, in una dinamica di rispecchiamenti nella quale è possibile e utile perdersi; un “viaggio al centro della famiglia” mai fine a se stesso.

Voi che da tanti anni leggete questo blog sapete che anche questo libro (che riprende alcuni dei brani qui pubblicati) è colmo del rischio di una intimità che vuole offrirsi alla passione di molte e di molti per la riflessione sulla propria esistenza, toccare il sentire urgente di tante e di tanti, generare vortici di interrogativi, guardandosi bene dal risolverli.

Vi aspetto metaforicamente in libreria ma, soprattutto, vi aspetto fisicamente alle presentazioni che faremo nelle prossime settimane in varie località: mi farà piacere, come è accaduto in passato, scoprire che siete in sala e conoscervi personalmente.

A presto. Un grande abbraccio a ciascuna e a ciascuno.

Farsi carico

Ho ereditato da mia madre uno sfondo depressivo che secerne un tono interiore di malinconia permanente. Nulla di definitivamente invalidante. Direi più un carico sulle spalle. Al quale devo molto, quasi tutto. Un carico a volte più pesante, a volte più leggero, che ha plasmato nei decenni le mie posture, quella fisica delle spalle curve e quella metaforica delle relazioni: se la postura è giusta, è più semplice farsi carico del carico ma è più semplice anche diventare il carico, farsi carico, cioè fare di sé il carico da portare. Salire sulle spalle, insomma. Farsi carico e farsi carico: due movimenti opposti e complementari.

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Il figlio muto

C’era Rino Gaetano che cantava A mano a mano e c’eravamo noi due che ballavamo. Tu dicevi che bella questa canzone di Rino Gaetano e io ti dicevo Mà, non è sua, è di Riccardo Cocciante e tu alzavi le spalle come per dire vabbè. Rino Gaetano ci guardava e sorrideva compiaciuto, forse perché – pensavo – non aveva mai visto una madre e un figlio ballare in questo modo. Tu portavi il tempo con le mani e basculavi con la testa e le spalle, portavo il tempo anch’io ma ero fermo sul tronco mentre ruotavamo sui noi stessi e anche giravamo intorno. E poi ti ballavo dappertutto, come facevo quando tornavo a casa e tu stavi cucinando e mi dicevi di smetterla e invece ti piaceva ed eri contenta. Sembrava l’avessimo fatta tante volte questa danza che sembrava una danza popolare di chissà dove e invece era la prima volta che ti vedevo così plastica e mi faceva impazzire il contrasto tra il tuo volto doloroso che conoscevo così bene e questa tua energia che non avevo mai visto. E allora guardavo Rino Gaetano per capire come fosse possibile ma non capivo e più non capivo più tu diventava piccola ed io enorme.

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Come Itaca, non esistere

Sentivo molto freddo ed ero completamente circondato dalla nebbia, come quando da bambino andavo a scuola e non si vedeva nulla ma proprio nulla e dovevamo camminare con le mani poggiate al muro e avevo paura quando bisognava attraversare.

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La mischia #3 – Posso chiudere la porta?

Una mattina mi svegliai prima del solito e, uscito in pineta, vidi che nei pressi del pagliaio era seduto qualcuno che, con ogni probabilità, c’aveva dormito dentro. Mi avviai in quella direzione e, giunto a poche decine di metri, ebbi la conferma che si trattava della persona che avevo immaginato. Mi sedetti di fianco e parlammo per pochissimi minuti. È difficile ammettere di aver fatto una cazzata, è ancora più difficile tornare avendo la certezza di sentirsene dire di ogni. Ci avviammo verso la casa e io suonai la campana che interrompeva qualunque cosa si stesse facendo, la campana che diceva «Venite!». Non c’era molto da interrompere perché ci si stava preparando per la colazione e quindi, nel giro di pochi minuti, eravamo tutti in cerchio nella casetta di legno. Quella volta, quando in piedi chiudemmo il cerchio, fu proprio lui a chiedere di poter custodire le parole e furono tutti d’accordo, perché era tornato.

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Mai la roba, mai.

Sognai che uscivo di casa e per strada non c’era nessuno e per questo mi spaventavo quando, nello specchietto retrovisore, vedevo un’utilitaria grigia incollata dietro di me. Giravo a destra e l’auto dietro di me restava incollata, dandomi il fastidio che mi danno quelli che guidano in quel modo. Giravo a sinistra, sperando di staccare dal cofano posteriore l’auto che vi si era incollata, e quella invece restava incollata aumentando il mio nervosismo. E così faceva girando a destra e poi intorno alla rotonda e poi sul cavalcavia sul quale acceleravo per immettermi con un sospiro di sollievo sulla rampa della statale ma il nervosismo si trasformava in ansia, perché l’utilitaria grigia era ancora incollata dietro di me, e produceva il sospetto che lo facesse apposta e per questo cercavo di vedere chi fosse ma non riuscivo neanche a capire se fosse un uomo o una donna, nonostante mi fosse vicinissimo. Ovviamente, mentre l’ansia aumentava, prendeva insieme a me l’uscita della statale, imboccava la provinciale nella mia stessa direzione e la percorreva alla mia stessa velocità nonostante io andassi pianissimo per lasciarmi sorpassare.

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La mischia #2 – Sbagliare il rigore decisivo

Era domenica mattina ed era, soprattutto, il diciassette luglio del novantaquattro. Avevamo improvvisato uno schermo gigante sul quale avremmo, di lì a poco, proiettato la finale dei mondiali di calcio. Mi chiamarono e mi dissero che dovevamo andare in ospedale: era morto un ragazzo ricoverato da molto tempo in pessime condizioni. Avevano chiamato noi perché eravamo le uniche persone che andavano tutti i giorni a fargli visita. Quando aveva saputo che stava male, la sua famiglia aveva deciso che lui non esisteva più. Il problema non era che stava male, il problema era che stava male perché aveva l’AIDS. Avesse avuto il cancro sarebbe stato diverso, molto diverso. Dunque quel ragazzo aveva cessato di vivere quel giorno, ma aveva cessato di esistere molto tempo prima.

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Troppo tardi

Ieri sera, vigilia di Natale, ti ho rivisto in un mio gesto spontaneo: ho chiuso una bottiglia e l’ho fatto nel modo in cui lo facevi tu. Mi succede la stessa cosa, e ti rivedo, ogni volta che sfrego inutilmente le dita sui soldi, quando li prendo dal portafogli. Ogni volta ho un sussulto, un battito: questi gesti si sono incorporati, si sono incistati nella memoria autonoma del mio corpo, quella che prescinde dalle mie intenzioni, quella che non controllo. Questi gesti consentono a te di continuare i tuoi gesti e a me di vederti e di riconoscerti. Ti rivedo anche in alcune espressioni di mio figlio e questo è proprio incredibile, perché lui ti ha frequentato poco.

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Rende possibile il pianto

Quando Roberto Vecchioni scrisse “Ma chi lo dice ai figli / Che ho paura di cantare e di volare / E che volare è facile / Ci vuol più fantasia per camminare” avevo due figli (e almeno altri due bambini, o forse tre, erano nati in quella nostra famiglia che era un covo di varia umanità) e una paura tagliente e persistente, di cui mai feci mistero, di affacciarmi al balcone di casa nostra che era al settimo piano.

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