#8 – TIENITI FORTE – L’AMORE E IL SOTTOSOPRA

Qui sotto trovate l’ottavo episodio del podcast dedicato al libro “Tieniti forte. Lettere al figlio che parte” (Bordeaux Edizioni). Nella prima parte leggo il brano “La ragazza del pullman”. Nella seconda parte faccio alcune considerazioni su amore, cambiamento, patriarcato e mondo sottosopra.

Per chi preferisce leggere: sotto la barra del link trovate la trascrizione delle considerazioni (seconda parte del podcast); per leggere, invece, il brano di partenza (prima parte del podcast) basta cliccare qui sul titolo del brano: LA RAGAZZA DEL PULLMAN

La mia formazione sentimentale risale ai tempi in cui il privato era politico.

L’idea che il privato fosse politico era fondamentale: non si trattava, come si potrebbe pensare sminuendo il concetto, di una mera questione di coerenza, cioè semplicemente di far coincidere il dichiarato con l’agito. Non che questo non fosse importante. No, è che non era questo che si intendeva dire quando si diceva che il privato è politico. Il senso è un altro e per spiegarlo faccio un passo indietro per ripartire da un concetto-base secondo il quale è politico tutto ciò che implica una trasformazione della realtà.

Ora, siccome la trasformazione, il cambiamento, è l’unica certezza, giacché tutto cambia e se non cambia non esiste, ne consegue che ogni atto umano che comporti un cambiamento è un atto politico, volontario o involontario che sia, è un atto politico che porta la realtà da una parte piuttosto che da un’altra. E anche la vita privata, non solo quella pubblica, anzi soprattutto la vita privata, è fatta di atti, di scelte, di comportamenti, certo in gran parte irrilevanti ma spesso significativi e molto significativi. E dunque molto politici.

Cosa c’entra l’amore con tutto ciò? Bé, qualunque relazione fra persone che dicono di amarsi è fatta di gesti, di posture, di movimenti, di scelte, che descrivono (a tutti i livelli, da quello microscopico fino a quello macro), il modo – consapevole o inconsapevole che sia – di distribuire il potere all’interno della relazione stessa (perché il potere è la capacità di impedire o favorire il cambiamento e dunque quando si parla di cambiamento si parla sempre di potere) e la direzione in cui si sceglie di dirigerlo e di dirigersi. Scegliere insieme di cambiare insieme il mondo scegliendo insieme in quale direzione cambiarlo è un atto molto politico. Ma è un atto politico molto forte anche scegliere insieme di fregarsene insieme di come va il mondo e di coltivare insieme l’orticello del proprio interesse particolare. Il primo è esplicitamente e consapevolmente politico, il secondo lo è implicitamente e inconsapevolmente (e anche dannosamente, ma questo lo dico per inciso).

Faccio un altro passo indietro: c’è una ragione se in tanti anni di lavoro sulle relazioni umane, forse mai ho usato la parola “amore” per riferirmi – e l’ho fatto decine di volte – a quel fenomeno complesso rappresentato da persone che si uniscono fra loro in nome di un sentimento che chiamano “amore”. La ragione per cui non ho mai usato la parola “amore” è che il significato che viene dato a questa parola, e dunque a questo sentimento, è eccessivamente arbitrario. Anzi, la questione è addirittura paradossale perché della parola più arbitraria che esista, esistono migliaia di definizioni e chiunque ne formuli una ritiene sia quella giusta.

Quello dell’amore è un caso emblematico di “fallacia della concretezza mal posta” (per usare una definizione del matematico Withehead) che è l’errore che si compie quando si confonde un sostantivo con la sostanza che col sostantivo si vorrebbe descrivere: si crede, cioè, che sia sufficiente apporre un’etichetta a qualcosa perché quel qualcosa diventi ciò è scritto sull’etichetta. Succede così per tantissime cose (per esempio credere di essere veramente degni di onore solo perché la legge ci ha assegnato il titolo di Onorevole) ma in alcuni casi, e il supposto amore è uno di questi, le conseguenze di questa illusione ottica possono essere pesanti. In molti casi il maltrattante che maltratta è sinceramente convinto che sia amore il sentimento patologico che lo lega alla sua vittima. Anzi: che lega la sua vittima a lui!

Ho scelto questo esempio perché è quello che più emblematicamente descrive quella che secondo me (e, ovviamente, secondo tantissimi teorici ben più titolati di me e che prima di me hanno trattato queste questioni) è la causa principale del fatto che il supposto amore patologico, deleterio, velenoso, patetico, inquietante, incomprensibile, triste, il non-amore, possa manifestarsi in tante forme, essendo comunque, e senza conseguenze, definito amore.

A questo proposito, faccio un passo a lato per aprire una parentesi: c’è una domanda che mi sono sempre fatto a questo proposito: è possibile amare una persona che non si stima? Ripeto: è possibile amare una persona di cui non si ha stima, che si disistima? Attenzione: non sto chiedendo se è possibile trascorrere la propria vita con una persona che non si stima, perché di gente che – per le ragioni più disparate – ha legato tutta sua la vita a quella del proprio carceriere è piena la casistica dei supposti amori patologici, deleteri, velenosi, inquietanti, incomprensibili. La domanda è molto diversa ed è questa: “è possibile provare nei confronti di una persona di cui non si ha la minima stima quel sentimento che – al netto della impossibilità di definirlo realmente – concordiamo momentaneamente di chiamare amore perché non è patologico?” È possibile amare una persona che ha una idea del mondo e della vita diametralmente opposta alla propria, inconciliabile con la propria?

Anche qui, il discorso è molto complesso e in questa sede posso soltanto accennarlo lasciando aperte le domande e tutte le possibili eccezioni per tornare a quella che avevo anticipato essere la causa principale delle tante forme di amore patologico: mi riferisco alla cultura patriarcale nella quale siamo completamente immersi, questa è la causa principale e forse unica della estrema difficoltà con cui spesso le persone vivono le loro relazioni affettive più significative.

Nella sua versione meno peggiore, il maschilismo patriarcale pretende, e sottolineo pretende, un tipo di amore che Claudio Naranjo ha definito “amore di ammirazione”. Il punto è che facilmente questo amore di ammirazione degrada nella sua versione peggiore che è la pretesa di un amore di devozione, di riverenza, di sottomissione, di cosificazione, di nientificazione.

Sto parlando, per intenderci, della stessa cultura patologica per cui lo stupro non sarebbe un reato contro la persona, e neanche contro la morale, bensì contro il patrimonio del maschio che è proprietario della femmina. Sto parlando dello stupro commesso da un altro maschio, ovviamente, giacché quello commesso dal maschio che si considera proprietario non sarebbe reato. E già qui aumentano le resistenze ad usare, in generale, come se fosse un concetto universalmente riconosciuto, la categoria dell’amore.

Ma non è tutto: il maschilismo patriarcale, soffocando in tutto l’arco dell’esistenza la libera espressione di sentimenti vitali (come la compassione e il desiderio, per fare solo degli esempi) è anche la causa del fatto che facilmente si crede sia amore nei confronti di una persona la propria necessità di amare e di amore, il proprio bisogno di dare e ricevere amore. È per via di questo equivoco, di questa illusione ottica, che tantissime persone – inconsapevolmente – segano il ramo su cui sono sedute, si sistemano nella parte bassa della relazione, offrendosi quali vittime apparentemente volontarie al maschilista patriarcale carnefice.

Provo a dirla in termini meno cruenti: premesso che gli umani stanno in relazione fra loro perché hanno assolutamente bisogno di stare in relazione tra loro, ciò di cui sto parlando è che è oggettivamente difficile escludere che, pur in maniera sincera, si possa credere sia amore la mera esigenza di soddisfare un proprio bisogno, mera nel senso che è priva di un discernimento, di un pensiero, di uno sguardo. Il problema non è il bisogno in sé, perché il bisogno di stare con altri umani è universale, e riguarda anche quelli che credono di non avere questo problema. Il problema è il bisogno quando, rendendo cieco chi lo porta, tiene in scacco la supposta relazione d’amore.

E sto parlando anche del conseguentemente probabilissimo squilibrio di potere che condiziona quasi ogni relazione di supposto amore, con le conseguenze che ciò comporta, giacché chi ha più bisogno ha meno potere e chi ha meno bisogno ha più potere. Ecco: di fronte, a queste difficoltà di concettualizzazione diventa paralizzante la resistenza ad usare a cuor leggero la categoria dell’amore. Di cosa stiamo parlando quando diciamo di parlare di amore?

Tutto ciò premesso farò un passo avanti, ma prima devo necessariamente velocemente precisare un paio di cose: quando uso la categoria del maschilismo patriarcale mi riferisco a un brodo culturale che da tempo immemore impregna l’intera collettività e non solo la sua componente maschile. Voglio dire che sarebbe un grave errore credere che la mente patriarcale sia solo, per dirla con semplicità, un problema maschile (dei maschi in quanto tali e del maschile come identità percepita). Anzi, per essere precisi, dovremmo dire: non solo il maschile, non tutto il maschile.

Precisata questa cosa, faccio il passo avanti: l’amore è un costrutto socioculturale la cui idealizzazione è essa stessa un prodotto della mente patriarcale; come l’idea infantile che l’amore debba essere per sempre o altrimenti non è amore; ma anche come l’idea che la monogamia sia indiscutibile; o come l’idea che esistano relazioni naturali e relazioni contronaturali; o come l’idealizzazione della logica binaria: sono tutte rigidità culturali prodotte dalla mente patriarcale che si fonda sul controllo dei corpi e delle coscienze (e quindi dei comportamenti).

Basterebbe non idealizzarlo, l’amore, per renderlo più sano. Basterebbe avere nei suoi confronti un atteggiamento di laicità invece che di adorazione del sacro. Basterebbe essere felici di avere un progetto in comune, godere del qui-e-ora, sapere che tutto arriva e tutto passa, invece che ipotecare il futuro e viverlo con angoscia.

C’è anche questo processo di scioglimento delle rigidità nell’amore liquido descritto da Zigmunt Bauman: non vedere gli aspetti positivi di questo processo è una perdita concettuale grave. C’è più libertà nelle relazioni liquide che nelle relazioni rigide, questo deve essere chiaro: c’è più libertà nelle relazioni liquide che nelle relazioni rigide. Certo, se c’è più libertà c’è il rischio che ci sia anche meno sostegno, questo è l’a-b-c delle relazioni umane; ma se c’è meno sostegno c’è la possibilità che ci sia anche meno controllo (siamo sempre all’a-b-c): ma questo lo si può decidere, ogni giorno; si può decidere come tenere insieme la libertà e il sostegno, si può scegliere di non sacrificare la libertà per paura di perdere il sostegno. Si può decidere cosa fare della propria libertà invece di temerla, invece di cadere nella trappola patriarcale di amare le catene che ci rendono meritevoli agli occhi degli altri, che ci rendono santi; invece di cadere nella trappola di credere che sia un valore in sé la rinuncia a essere ciò che intimamente ci si sente chiamati ad essere, la rinuncia alla propria vocazione. Poter scegliere ha valore. Anche la scelta di rinunciare ha valore, se è una scelta libera. Da qualche secondo, rispetto alla lunga storia dell’umanità, la parola amore sta avendo, nel nostro mondo, qualche chance in più rispetto al passato: lo dobbiamo al fatto che la faticosa ma progressiva liquefazione delle patologiche rigidità patriarcali sta rendendo finalmente visibili, possibili e legittime le esistenze, le identità e le relazioni fluide di tanta gente che ha scelto cosa fare della propria libertà, di tanta gente che ha realizzato sulla propria pelle il fatto che il privato è politico e che, sulla propria pelle, sta cambiando il mondo e lo sta facendo anche a beneficio di chi, maschilista patriarcale, crede che il mondo stia andando sottosopra.

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