La sindrome di Mastro Geppetto

Tutte le culture patriarcali (dunque quasi tutte le culture del mondo) utilizzano di default il dispositivo del capro espiatorio. Lo utilizzano per risolvere (o credendo di risolvere, o facendo credere di risolvere) problemi reali e problemi che sono sinceramente convinte di avere ma che in realtà non hanno. Lo utilizzano anche quando il problema non esiste ma conviene far credere che esista. Chi sceglie se usarlo e come usarlo? Chiunque, a qualunque livello, è nelle condizioni di farlo, ha cioè il potere di imporre questo escamotage in una piccola o grande comunità di persone. Non è strettamente necessario detenere un potere formale per farlo: è sufficiente detenere anche solo (si fa per dire) un potere reale e decidere di usarlo, anche solo a proprio vantaggio (per esempio per destabilizzare il potere formale e/o per ottenerlo).

Va da sé che il dispositivo del capro espiatorio non risolve il problema per il quale si dichiara il suo utilizzo. Risolve invece, e per questo viene usato, altre questioni, porta altre utilità; aggiusta cose che, però, è necessario non siano enunciate, pena l’inefficacia del dispositivo (anche e soprattutto se dotato di tutti gli accorgimenti liturgici del rito collettivo). Quali cose aggiusta? Impossibile elencarle tutte. Si può forse ipotizzare che si vada da un minimo del voler allontanare da sé la colpa di qualcosa a un massimo di voler far credere a una collettività che si possa magicamente risolvere qualcosa che nella realtà non si può risolvere o non si dovrebbe risolvere in quel modo o che non esiste ed è stata inventata ad arte.

Chi può essere capro espiatorio? Chiunque abbia quelli che René Girard[1] chiama segni vittimari: i segni, o stereotipi, sono caratteristiche ben visibili che per semplificare potremmo accorpare in tre macrocategorie: le deformazioni e le stranezze del corpo, alcuni status (il re, lo schiavo, il sacerdote/stregone/sciamano, eccetera), alcune condizioni soggettive (la vergine, l’ultimo arrivato, lo straniero; nel lungo incipit di Il capro espiatorio, Girard racconta della persecuzione degli ebrei accusati, nel XIV secolo, di essere colpevoli della peste nera). Nella maggior parte dei casi, soprattutto nella versione moderna e mondana del dispositivo, al capro espiatorio viene attribuita la colpa del problema. Ma il capro poteva anche avere una funzione esplicitamente espiatoria e da capro diventare agnello: incolpevole, veniva sacrificato perché considerato l’offerta più preziosa. L’agnello sacrificale perfetto era quello volontario. Ma restiamo sul capro espiatorio.

Quando, nel 2001 a Novi Ligure, furono trovati i cadaveri di una mamma e di suo figlio, i media e la folla stabilirono immediatamente che erano stati “gli albanesi” e iniziò la caccia. Quando si scoprì che ad uccidere erano stati Erika, figlia e sorella delle vittime, e il suo ragazzo Omar, per tante persone fu uno shock culturale (il mostro, la colpa, può essere dentro di noi). Ma fu un attimo: poco dopo, la gente riprese a fare ciò che stava facendo.

Questo episodio illumina un aspetto fondamentale: se è vero che il dispositivo del capro espiatorio spesso è una scelta consapevole e perversa (come la strategia di dare ogni giorno in pasto alla folla un nemico), più spesso è un movimento inconsapevole che ha il doppio vantaggio di abbattere la complessità dalla quale ci si sente schiacciati e di allontanare da sé stessi il calice amaro della colpa.

Da questo punto di vista, un capro espiatorio molto efficace è “i giovani di oggi”. Non la categoria generale de “i giovani”, attenzione, ma la sottocategoria de “i giovani di oggi”. Affinché il dispositivo funzioni, infatti, è importante credere sinceramente che mala tempora currunt e che i giovani di oggi dovrebbero prendere esempio dai giovani di ieri e, meglio ancora, da quelli dell’altro ieri. Il successo di questo potentissimo capro espiatorio non ha mai avuto periodi di crisi: in ogni tempo e in ogni dove, tutte le volte che qualcuno, apprestandosi al rito, solleva al cielo quella vittima, accorre all’altare una folla eccitata e incitante, disposta a fornire – se mai ce ne fosse bisogno – motivazioni aggiuntive a supporto della scelta.

Qualche mese fa, durante una tavola rotonda, una professoressa – volendo essere certa che all’uditorio fosse chiara la gravità della situazione odierna – informò i presenti di una cosa gravissima successa nella sua scuola, una cosa che, secondo lei, era la conferma che mala tempora currunt e che i giovani di oggi ci stanno trascinando velocemente verso il baratro: nella sua scuola, addirittura, i giovani di oggi avevano scritto delle cose sui muri dei bagni. Un brivido di paura attraversò la sala mentre la gente si chiedeva se non fossimo giunti davvero alla fine della storia dell’umanità.

Quando fu il mio turno, a me toccava chiudere gli interventi, volli aggiungere anche io un carico da novanta e allora lessi ciò che una persona molto nota per la sua saggezza, e quindi molto autorevole, aveva scritto sulla drammatica deriva in atto, confermando i nostri timori: Oggi il padre teme i figli. I figli si credono uguali al padre e non hanno né rispetto né stima per i genitori. Ciò che essi vogliono è essere liberi. Il professore ha paura degli allievi, gli allievi insultano i professori; i giovani esigono immediatamente il posto degli anziani; gli anziani, per non apparire retrogradi o dispotici, acconsentono a tale cedimento e, a corona di tutto, in nome della libertà e dell’uguaglianza, si reclama la libertà dei sessi. Le teste che durante la lettura di questa testimonianza annuivano oppure basculavano la testa indicando un “no” di preoccupazione e angoscia, smisero improvvisamente qualunque movimento e corrucciarono lo sguardo quando precisai che quelle parole erano di un certo Platone, vissuto tra il 400 e il 300 avanti Cristo. Aggiunsi poi che, quattrocento anni prima di lui, anche Esiodo aveva scritto: Non nutro più alcuna speranza per il futuro del nostro popolo, se deve dipendere dalla gioventù superficiale di oggi, perché questa gioventù è senza dubbio insopportabile, irriguardosa e saputa. Quando ero ancora giovane mi sono state insegnate le buone maniere e il rispetto per i genitori: la gioventù di oggi invece vuole sempre dire la sua ed è sfacciata.

Fu chiaro, a quel punto, che quella tavola rotonda era stata convocata con circa tremila anni di ritardo. Forse gli organizzatori non erano sul pezzo. Oppure stavamo tutti partecipando a un rito collettivo. Ma questo non lo dissi. Mi limitai a spiegare che i tanti adulti che pedantemente si lamentano dei “giovani di oggi” si comportano come se avessero ricevuto da Mastro Ciliegia un ciocco di legno già dotato di vita propria. Sembra ritengano di non aver avuto, come Mastro Geppetto, alcun ruolo nella formazione di quel discolo di Pinocchio, che preferì il Paese dei balocchi alla scuola.

Così fanno tanti adulti: parlano dei figli di oggi, più spesso dei figli altrui, come se non fossero cresciuti con loro, con le loro cure, sotto la loro responsabilità, ma fossero stati, un giorno, consegnati a casa da un corriere, sotto forma di ciocchi di legno che non si è fatto in tempo a finire di scolpirli che già facevano danni. Parlano e scrivono, molti adulti, dalla penombra della pancia della balena che li ha inghiottiti. Non sanno che sarà proprio Pinocchio a salvarli.


[1] Di René Girard, su questi temi suggerisco La violenza e il sacro e Il capro espiatorio, entrambi editi da Adelphi. Suggerisco anche Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo (Raffaello Cortina) che a allarga lo zoom su aspetti limitrofi moltissimo interessanti.

1 thoughts on “La sindrome di Mastro Geppetto

  1. Stupendo e ti ringrazio. Lavoro con gli adolescenti nelle scuole, per strada, in spazi informali nati sul momento e tutto quello che hai scritto per me è utile come il pane. Concordo su tutta la linea, alcune volte diritta altre volte curva. Le due citazioni, quella di Platone e quella di Esiodo, me le trascriverò su un biglietto da tenere in tasca e quando il biglietto si sarà logorato le trascriverò di nuovo.
    Grazie!

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