Dalla paura al mito di sé (prima parte)

Sempre più spesso mi capita di pensare che un libro come Fear di Corey Robin (forse la più lucida e argomentata analisi sulla cosiddetta politica della paura) rischia di essere superato dai fenomeni. La tesi di Robin è netta: i governanti statunitensi usano la paura come distrazione dal fatto che le élite finanziarie stanno consolidando il loro controllo sulla popolazione. La paura non è solo un mezzo per occultare il controllo, essa è la ragione stessa del controllo. Anzi: grazie alla paura è la popolazione stessa ad accettare, prima, e a chiedere, poi, di essere controllata (Chomsky docet).

In cosa, allora, secondo me i fenomeni avrebbero superato la teoria di Robin e dunque anche le ipotesi di Chomsky? La mia tesi è la seguente: il concetto di sicurezza ha subito un processo di ri-connotazione semantica in seguito al quale oggi la sua matrice non è più la paura ma il fastidio.

Si badi bene che qui non si teorizza la scomparsa della paura dal novero delle motivazioni in base alle quali il mercato (politico e commerciale) compra e vende sicurezza. Assolutamente no. Anzi: la paura resta sicuramente al primo posto di tale lista.

La tras-formazione del pensiero sulla sicurezza è stata storicamente innestata da pochi ma emblematici fatti accaduti qualche anno fa:

–      nella primavera del 2007 il ministro dell’Interno Amato, cioè il principale responsabile delle politiche per la sicurezza del nostro Paese, in un convegno pubblico a Roma dichiara che “zingarelli, lavavetri e bambini che chiedono l’elemosina ai semafori sono la principale minaccia alla sicurezza della capitale”
–      qualche mese dopo a Firenze parte la crociata del Sindaco contro i lavavetri
–      subito dopo il Sindaco di Bologna si mobilita contro i writers.

Solo apparentemente ci troviamo di fronte a episodi di isteria istituzionale o di demagogia politica. In realtà, invece, dietro questi fatti si dipanano due strategie strettamente connesse tra di loro:

  1. una strategia di semplificazione della realtà
  2. una strategia di spostamento del locus e del focus del problema

La prima strategia esprime una sorta di vocazione magica nella quale la magia non sta nell’enunciare il male per esorcizzarlo (magia bianca), ma nell’evocarlo affinché accada (magia nera). Estendendo il significato di insicurezza fino a comprendere la categoria del fastidio si opera una semplificazione che ha profonde implicazioni socio-politiche: la paura è un sentimento che attinge la propria esistenza dal bisogno profondo e antico di proteggere la propria integrità (fisica ed esistenziale al tempo stesso) da una minaccia, esterna o interna che sia; all’origine del fastidio, invece, non c’è alcuna minaccia alla integrità ma un bisogno, più superficiale (direi più “storico”), di difendere una posizione di vantaggio, una condizione migliore per sé.

La paura è irrazionale, il fastidio è molto razionale, pigramente razionale.

La seconda strategia si spiega con una realtà che è sotto gli occhi di tutti: pochi giorni prima che Amato lanciasse l’allarme “zingarelli, lavavetri e bambini che chiedono l’elemosina ai semafori” era stato presentato pubblicamente il rapporto 2006 di SOS Impresa stima in 77,8 miliardi di euro all’anno il fatturato della mafia italiana: il doppio di FIAT e ENEL, dieci volte TELECOM. L’usura e il pizzo, da soli, sommano 40 miliardi di euro all’anno. Secondo l’Agenzia della Confesercenti, la mafia ha definitivamente cambiato volto: è capace di “intervenire con proprie imprese nelle relazioni economiche stabilendo collegamenti collusivi con la politica e la burocrazia soprattutto per il controllo del sistema degli appalti e dei servizi pubblici”. Emerge così una “borghesia mafiosa”, una “mafia dalla faccia pulita”, composta da gruppi di imprenditori, professionisti , amministratori che in cambio di favori, curano gli interessi locali dei clan, il più delle volte prendendone le redini”. Il Consiglio d’Europa definisce la criminalità informatica “una minaccia per la democrazia, i diritti dell’uomo e lo stato di diritto” e avverte che “i gruppi terroristici, le reti legate alla pornografia o alla pedofilia, i traffici illeciti di armi, droga, esseri umani, denaro sporco e i criminali informatici sfruttano lo sviluppo di questi nuovi mezzi di comunicazione per accrescere le proprie attività illecite”.

Coprendo questa realtà con lo spauracchio di “zingarelli, lavavetri e bambini che chiedono l’elemosina ai semafori” i responsabili politici della sicurezza attuano uno spostamento nell’altrove non solo del focus del problema (dunque dell’attenzione collettiva) ma anche del locus of control del problema (dunque delle responsabilità oggettive).

Il risultato è una duplice conseguenza socio-politica.

Da una parte si ha una modificazione radicale della dimensione teleologica delle politiche per la sicurezza con il passaggio da un’idea di insicurezza come normale precarietà ad una più angosciante di insicurezza come rischio immanente

Dall’altra parte si instaura un ferreo regime culturale di tutela delle dis-eguaglianze e di difesa di interessi di parte. Su Fuoriluogo del 30 settembre 2007, Livio Pepino ha scritto che “la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passa necessariamente attraverso l’espulsione da quei diritti degli esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali (…), considerati i nuovi barbari da cui la società deve difendersi con ogni mezzo”.
E’ questo il principale indicatore di una situazione patologica perché, come sa bene chi si occupa di sicurezza urbana, o vi è sicurezza per tutti o non vi è sicurezza!

Parafrasando Bauman potremmo dire che una società sotto assedio è l’humus ideale per l’egoismo dell’opulenza. (Prima parte – continua).

 

1 thoughts on “Dalla paura al mito di sé (prima parte)

  1. La mercificazione della paura nella società americana fu magnificamente affrontata nel 1967 nella commedia “Piccoli omicidi”, scritta dal grandissimo Jules Feiffer. E’ incredibile, per quanto mi è dato di sapere, che nessuna compagnia teatrale abbia deciso di riproporla. Come quasi sempre succede, il grande artista e intellettuale (era fumettista e commediografo) ci aveva criticamente messo in guardia dalla deriva fòbica verso cui tendeva il senso comune quotidiano.
    Un altro esempio efficace dei mutati comportamenti ormai pervasi di paura l’ho vissuto anni dopo visitando l’efficace mostra “Paura”, realizzata nel ’94 ’95 da Oliviero Toscani e i giovani borsisti del progetto “Fabrica”. Io ebbi l’occasione di viverla nell’autunno del ’96 nel Museo di Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato. Si trattava di attraversare un percorso buio con gigantografie illuminate alle pareti che rappresentavano normali situazioni quotidiane, accanto a ciascuna foto campeggiava però la parola “paura”, una puntuale provocazione che ti spingeva a mettere in moto la tua immaginazione per mettere in relazione quei comportamenti apparentemente insignificanti con la spinta fòbica che ne era alla radice delle motivazioni. Alla fine del percorso, prima di riuscire alla luce, ciascuno aveva a disposizione un foglietto e un lapis per scrivere o disegnare la propria paura, c’era infine una campana sul modello di quelle che si usano per buttar via il vetro da riciclare, per riporvi dentro il foglietto. Per la prima volta nel disegno che ho fatto è emersa dal mio inconscio la mia principale paura (tra le tante), una sorta di gioco della verità. Ne sono rimasto molto turbato e da allora non ho mai più smesso di pensarci.
    Ma ciò che in questa sede può essere interessante sapere è che il gruppo “Fabrica” conduce in questo originalissimo e artistico modo le ricerche di mercato sui gusti dei consumatori per conto del gruppo Benetton, che finanzia “Fabrica”. E’ pertanto ragionevole supporre che le merci Benetton altro non rappresentino che la reificazione delle risposte ai nostri bisogni profondi.
    In un modo un po’ più rozzo il potere costituito nella nostra penisola, da ben prima dell’Unità d’Italia, trasforma costantemente qualsiasi evento che richieda una soluzione che può toccare alcuni privilegi, in un fatto di ordine pubblico, sicuro di pescare in un magma vasto e profondo fatto di paure, fragilità, incertezze che attingono in un irrisolto inconscio psichico infantile di massa, che non riesce mai a emanciparsi, a diventare compiutamente adulto. Insomma alla fine arrivano sempre i carabinieri.

    (Ho usato consapevolmente le parole “paura” e “fobìa” pur conoscendone il diverso significato.)

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