Ciascuno cresce solo…

Le ultime settimane sono state talmente intense da rendermi afasico, da impedirmi di trovare le parole per trasformare in articoli le tante sollecitazioni delle lunghe giornate di lavoro. Ci sono giorni, infatti, nei quali si fa fatica a mettere il punto perché c’è sempre ancora qualcos’altro da pensare. Ci sono anche notti che finiscono troppo presto per lo stesso motivo: c’è già qualcosa da pensare. E’ come essere in viaggio e non poter avere sosta che non sia breve. Alla fine mi sono ritrovato in tasca un po’ di bigliettini di appunti presi per paura di dimenticare.

Nel 1989 scoprii l’esistenza di Danilo Dolci. Pur non essendo mai stato, io, un teorico e un testimone della nonviolenza, mi colpirono molto la sua figura, le sue azioni di lotta dal basso e le sue poesie. Una soprattutto:

C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.

Questa poesia, forse la più famosa di Danilo Dolci, è conosciuta e amata soprattutto per l’ultimo verso (ciascuno cresce solo se sognato). Io fui invece folgorato dal suo contenuto più generale: la mia immaturità pedagogica del tempo fu stuprata infatti dalla irruzione, nella mia idea di relazione di cura, di due categorie fondamentali: la libertà e la verità. La mia vita, personale e professionale, fu irrimediabilmente segnata da questo avvento culturale ed oggi sono convinto che quei versi siano l’imprinting della mia amara solitudine interiore e ideologica. Vent’anni dopo ho scritto Ho perso le parole che è un libro sulla libertà nelle pratiche di cura. In occasione della presentazione del libro alla libreria Laterza di Bari, dissi pubblicamente che avrei di lì a poco iniziato a scrivere un libro sulla verità nelle pratiche di cura.

Come pioggia che interrompe il lavoro di chi scava alla ricerca dell’acqua, la ricostruzione di questo filo nella mia autobiografia, e dunque l’epifania di questa poesia, fu un insight pomeridiano che interruppe piacevolmente il mio lavoro (stavo costruendo la mappa di una lezione sullo stigma). E siccome l’acqua quando è abbondante porta sempre con sé qualcosa, proprio in quel momento Andrea, senza saperlo, mi fece avere un cortometraggio che è una delle cose più belle che io abbia mai visto: in questo film la fisica sociale della mia lezione sullo stigma diventa poesia allo stato puro e anche i miei pensieri presero una forma migliore: “sistema – dominio – visibilità” sono le tre parole chiave dello stigma; “emblema e bluff” le sue dinamiche.

Il buco nero dei miei sogni (anche ad occhi aperti) ha inghiottito i versi di Danilo Dolci, il loro essersi riverberati nella mia vita e nella mia filosofia, il mio sentirmi solo, libertà e verità, l’uomo senza arti, il bambino che accudisce il bruco, il circo come metafora del sistema, vedere e non vedere, la coincidenza lavoro-poesia-film, il bambino che poggia la testa sulla spalle dell’uomo senza arti e la sua mamma che piange, la mappa di questi apprendimenti.

Quando riaccendo la luce, dopo aver proiettato il film a lezione, molti occultano il viso ma non riescono a nascondere la loro commozione: ci sono apprendimenti che scuotono dentro.

Oggi vedo davanti a me l’imponderabile ragnatela di nessi che lega i bigliettini nelle mie tasche e, prima di loro, l’incontro con queste opere e con ciò che hanno suscitato in me. E comprendo che un tempo sono stato sognato.

2 thoughts on “Ciascuno cresce solo…

  1. E’ confortante il pensiero di essere stati sognati, così come lo è il pensiero di essere stati fatti a immagine e somiglianza di un dio. E un’interpretazione simile possiamo dare all’esistenza di un homo absconditus in ciascuno di noi a cui Ernesto Balducci diceva di rivolgersi nelle sue omelie e nei suoi scritti. E’ l’asserzione di un’idea che dà forza, slancio utopico. E’ infatti una topica del linguaggio dei profeti. Sì, io credo nella necessità di un linguaggio profetico che ci aiuti a sollevarci al di sopra dei tatticismi, dei calcoli a cui il confronto con i dati di realtà (che meglio sarebbe chiamare “presi” di realtà) ci costringono quotidianamente.
    Nei miei primi mesi di scuola, in prima elementare, nell’inverno del 1957, un pomeriggio mio padre mi portò dall’oculista. Non riuscivo a vedere bene le parole che il mio maestro, Davella Teodorico, scriveva alla lavagna. Il medico oculista, il dott. Boccasini o Boccassini, veniva una volta al mese da Roma, riceveva in uno studio in Vico Forno Vecchio. Era un appartamento enorme e buio, arredato con mobili antichi, scuri e austeri. O almeno tale è nel mio ricordo presente. Il medico mi visitò accuratamente. Macchine, bracci meccanici, lenti bizzarre, protesi, odori, luci, tutto aveva per me un profumo sconosciuto, estraneo al mio mondo fatto di povertà e fantasia. Alla fine della visita il medico comunicò ad alta voce a mio padre la diagnosi: miopia e astigmatismo ipermetropico. Parole che per me rappresentavano una pura emissione di suoni mai uditi. Capii di più quando il dottore disse a papà che avrei dovuto portare gli occhiali per tutta la vita. Mi immaginai immediatamente canzonato dai miei compagni con l’avvilente insulto “quattrocchi”. Il vecchio dottore lo intuì immediatamente e rivolgendosi direttamente a me, chinandosi sul mio viso mi parlò, dicendomi cose che non capii immediatamente, compresi però dal tono in cui le pronunciava che mi stava dicendo cose importanti, e che quelle cose riguardavano me e soltanto me. Le parole furono pressappoco queste :”Vedi Vincenzino, tu hai degli occhi speciali che ti permetteranno di vedere quello che gli altri non vedono, quando gli altri ti diranno quello che loro vedono tu potrai aggiungere quello che i tuoi occhi vedono”. Avrei scoperto molti anni dopo che la radice linguistica della parola “miopia” deriva dalla parola “mistes”, mistero, e che la parola “astigmatico” contiene nella prima “a” l’alfa privativo greco e che lo “stigma” è qualcosa che nel linguaggio comune ha una forte accezione negativa. Mi trovo pertanto cosituzionalmente, fisicamente a vivere vicino alla dimensione del mistero e senza stigma, ossia senza quel segno, oggi metaforico ma non per questo meno crudele, che un tempo veniva fatto sulla fronte degli schiavi per indicare che avevano tentato di fuggire. Piacevolmente condannato alla pratica del pensiero divergente, non c’è nulla che possa definire o imprigionare l’immensa interconnessione delle cellule viventi di cui sono fatto.
    Quel pomeriggio attraversai quel buon profumo di pane che ancora oggi sento (o forse immagino soltanto) in Vico Forno Vecchio, mano nella mano a mio padre, pieno di orgoglio per i miei occhi speciali.

  2. MI RICORDA UN PICCOLO DIFETTO CHE MIA FIGLIA ALESSANDRA AVEVA, NELL’ETà DELLA PRE ADOLOSCENZA E ADOLOSCENZA, QUANDO I COMPAGNI LA CANZONAVANO, NON HA MAI FATTO TRASPARIRE IL SUO DISAGIO, MA LO COMBATTEVA CON FORZA DIFEDENDO QUESTO DIFETTO CHIAMATO PROTUSIONE. MI HA INSEGNATO DI COME AVEVA COLTO IL VALORE DELLA PERSONA , SENZA FARSI PESARE QUESTO DISAGIO. QUESTO MI è STATO CONFERMATO QUANDO L’HO PORTATA DAL DALLO SPECIALISTA HA VOLUTO CORREGGERE SOLO LA PARTE FUNZIONALE ,NON VOLENDO CORREGGERE LA PARTE ESTETICA.

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